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Casa di Correzione, Parte 3

by Apollodoro


Il mattino successivo notai che Alfredo e Nicola avevano delle facce contrariate, musi lunghi. Rispondevano a monosillabi qualsiasi cosa gli si chiedesse. Giovanni non sembrava dargli molto peso. Liberato dal laccio di cuoio, assaporai con più gusto il piacere della doccia, e contemplai in particolare il cazzo di Piero, che si accorse di come lo guardavo. Mentre ci recavamo in laboratorio, vidi che Alfredo e Nicola entravano nella porta dell’ufficio del caporeparto. La mia fantasia si mise subito in moto, ma poco dopo li vidi arrivare in laboratorio e mettersi subito al lavoro, con facce più distese. Non avevano avuto, pensavo, il tempo di fare nulla, ma restava il mistero di cosa fossero andati a fare. L’enigma mi fu chiarito dopo una settimana. Nel frattempo Giovanni aveva preso l’abitudine di infilarsi nel mio letto ogni sera. Si faceva fare un pompino e mi ripagava masturbandomi con dolcezza. La notte fatidica accadde questo. Giovanni era nel mio letto e io, sotto le lenzuola, gli stavo ciucciando il cazzo con passione. Ormai ci avevo preso gusto ed ero diventato un vero esperto. Giovanni mugolava di piacere, e io temevo che questo nostro commercio potesse disturbare gli altri. Per quanto avvezzi a ogni genere di licenze, era pur vero che dormivano, e il loro sonno poteva essere infranto da tutto quel chiasso. Ma proprio mentre il cazzo di Giovanni si stava inturgidendo maggiormente, segnalandomi un’imminente fuoriuscita di sperma, sentii dei passi rapidi avvicinarsi a noi. Il lenzuolo fu violentemente scoperchiato, e vidi la luce di una torcia puntata su di noi. «È questo che fate, invece di dormire!!» Era la voce del caporeparto. «Venite immediatamente nel mio ufficio.» Ci alzammo, impauriti, e lo seguimmo, dopo esserci infilati un paio di mutande. Nell’ufficio, prima chiuse a chiave la porta, poi andò ad appoggiarsi alla scrivania. In piedi, di fronte a lui, avevamo ancora i cazzi in erezione, che premevano contro la stoffa delle mutande. «Voi due sembrate avere sempre una gran voglia, a quanto mi dicono.» «Chi, chi le ha detto questo?» disse Giovanni. Il caporeparto non rispose, ma io sapevo chi era stato. «Ebbene» riprese «vediamo cosa sapete fare.» e intanto si tirava fuori dai pantaloni il fallo enorme che già conoscevo. Io mi stavo già per inginocchiare ai suoi piedi, ma Giovanni mi trattenne, e si irrigidì in posizione difensiva. «Questa volta, piccolo stronzo, farai quello che voglio» disse il caporeparto rivolto a Giovanni, e tirò fuori da un cassetto una lunga cinghia di cuoio, con la quale iniziò a frustarlo. Vibrava i suoi colpi sul petto di Giovanni, che stoicamente resisteva senza fiatare. Ogni colpo lasciava una striscia rossa sulla sua pelle. «Vuoi fare il duro, ma non sai con chi hai a che fare» disse il caporeparto, che andava eccitandosi sempre più, mostrando un cazzo ancora più grosso di come lo ricordavo. Prese a frustare Giovanni sul basso ventre. Io tremavo e mi ero appiattato contro una parete. Vidi che il cazzo dritto di Giovanni, sotto le mutande, veniva colpito ripetutamente. Ma fu quando le cinghiate cominciarono a lambire le sue palle, che diede i primi segni di cedimento. Il caporeparto, con l’uccello svettante fuori dai calzoni (che non si era tolto), capì che la manovra giusta era colpire in mezzo alle gambe dal basso verso l’alto in modo che i coglioni di Giovanni venissero presi in pieno. A ogni colpo, adesso, Giovanni gemeva e tutto il suo corpo sussultava. Alla settima frustata sulle palle Giovanni, piangendo silenziosamente, crollò sulle ginocchia. Vidi la sua faccia, a pezzi, rigata di lacrime. Il caporeparto gli avvicinò il cazzo alla bocca. «Sai quello che devi fare, stronzo. Su, vai giù di lingua.» Giovanni, prostrato, cominciò a leccarglielo. «Vieni qui anche tu, puttanella» Mi avvicinai. Le nostre due lingue presero a percorrere in su e in giù quell’arnese gigantesco. Afferrate le nostre teste per i capelli, il caporeparto ci pilotava e ansimava di piacere. Credevo che sarebbe venuto così, ma mi sbagliavo. Con gesti decisi, a un certo punto, afferrò Giovanni e lo spinse contro la scrivania. Gli tirò giù le mutande e gli puntò il cazzo contro il buco del culo. «Apri, stronzo!» Evidentemente Giovanni stringeva il più possibile per non farsi inculare. «Credi ancora di potermi resistere?» Prese a frustarlo sul culo selvaggiamente. A un certo punto Giovanni crollò. Le gambe gli si afflosciarono e cadde a terra svenuto. Il caporeparto lo spostò da un lato con un piede e mi ordinò di mettermi in posizione. Ebbi l’accortezza di lubrificarmi il culo con po’ di saliva prima di sottopormi a un’inculata che sapevo sarebbe stata rabbiosa. Me lo spinse dentro con una violenza tale che spostò tutta la scrivania. Sentivo la sua mazza premere contro le pareti del retto. Ero impalato, quasi sollevato. Venne dopo solo quattro spinte, bestemmiando e bisbigliandomi sconcezze dentro un orecchio, evidentemente troppo eccitato da quanto era successo. Alla fine mi disse di portare Giovanni a letto e di non provare a raccontare a nessuno quello che avevamo fatto, se ci tenevo a restare vivo. «A far fuori uno come te non mi ci vuole niente, capito?», mi disse mentre trascinavo Giovanni, ancora privo di sensi, in dormitorio.


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