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Odissea Capitolo II

by Galeazzo_45


Odissea Capitolo II

di Galeazzo

Il volo sulle isole dell’Egeo fu meraviglioso: ancora una volta Ila poté ammirare dall’alto l’incastonarsi di tante piccole perle riarse nell’azzurro turchese del mare. L’aquila batteva le ali lentamente, come per far ammirare meglio il panorama al giovinetto, che si godeva la brezza del vento fresco. Presto atterrarono nel patio di una grande villa posta su una collina in vista del mare, e l’aquila salutò Ila con un beccotto affettuoso sui riccioli dorati. Ila, ancora stordito si ritrovò solo, ma dopo pochi istanti sentì lo scalpiccio degli zoccoli di un cavallo, e rimase a bocca aperta quando vide l’essere che gli si avvicinava, il centauro Chirone. Aveva il volto di un uomo bello e virile, incorniciato da una folta barba, braccia robuste e muscolose, interamente ricoperte da pelo nero, ma a partire dal collo grosso e taurino in giù, l’aspetto cambiava giacché prendeva le sembianze di uno splendido cavallo baio, con un bellissimo pelo rasato che lasciava intravedere i muscoli guizzanti dell’animale. Ila guardò istintivamente sotto la pancia dell’animale e rimase sbalordito dalle dimensioni delle grosse bocce nere e dell’arnese maschile che aveva visto solo nel più focoso degli stalloni di suo padre. Sono il centauro Chirone, disse l’essere mostruoso con una bella voce maschia e profonda, e tu sarai qui mio ospite per tutto il tempo necessario a diventare un perfetto compagno per il mio grande amico Ercole. Nei giorni seguenti Chirone iniziò l’educazione del ragazzo, insegnandogli tutte le virtù terapeutiche delle erbe, la fabbricazione degli unguenti, delle tisane e di tutto ciò che la natura dell’isola aveva di buono; Ila era un po’ annoiato, anche perché in piena tempesta ormonale e ormai pensava sempre alla magnifica occasione che aveva perso la sera della manata deflorazione da parte del muscoloso Eroe. Poi un giorno Chirone aprì una pesante porta di legno, scricchiolante, e lo introdusse in una stanza che aveva l’aria di essere il sancta sanctorum della villa. E subito Ila vide una cosa che lo lasciò sbalordito: tutta una parete era addobbata da un almeno un centinaio di falli di cuoio, completi di palle e di peli, pitturati in modo da avere i colori naturali del membro umano. Questo, disse Chirone staccandone uno di belle dimensioni dalla parete e soppesandolo, è quello che gli umani chiamano cazzo, con una parola che deriva da akation, l’albero maestro della nave. Tutti sanno che una barca senza albero maestro è destinata ad andare alla deriva.e in effetti il cazzo è la cosa più importante del mondo, come dimostra la sanguinosa guerra di Troia. Prima di partire per la guerra di Troia, i guerrieri Achei si sottoposero volentieri come modelli al grande artista Dedalo, che prima prese le misure del loro organo eretto e lo plasmò in cera, per poi ricoprirlo con una pelle finissima di vitello appena nato. Gli Achei lasciarono quindi un ricordo imperituro di quella parte del loro corpo che rappresentava il loro orgoglio e da cui traevano il massimo piacere della vita, oltre che essere lo strumento con cui propagavano la loro discendenza. Ora che molti di loro sono periti in guerra, c’è un continuo pellegrinaggio delle vedove e dei figli che vogliono vedere e toccare per l’ultima volta il simulacro del fallo dell’uomo di casa. Guardali bene, perché ogni giorno dovrai prendere e tenere uno di questi oggetti in quella parte destinata a questo, il culo, che come dice la parola stessa , deriva da koulon, che altro non è che il fodero in cui si depongono le aste e le frecce. Ila, incuriosito e anche un po’ spaventato dalle dimensioni di alcuni di essi, incominciò a chiedere a chi appartenessero i vari membri. E Chirone, sempre didattico al massimo grado incominciò a dare loro i nomi degli eroi a cui erano appartenuti: la cosa strana erano le dimensioni a volte ridicolmente ridotte di alcuni celebri eroi, come Achille, che sfigurava al fianco di quello di Patroclo, e soprattutto quello di Menelao, che evidentemente era stato lasciato da Elena la troia per il ben più nerboruto Paride. Notevole era invece il cazzo di Agamennone, storto e malaticcio quello di Filottete, e poi si arrivava ai calibri decisamente superiori di Diomede e di Aiace. Ma uno in particolare colpì il giovinetto per la perfezione delle sue linee, per le sue superbe dimensioni, per la proporzione tra la grossa testa o cappella che svettava a coronamento dell’asta, per i grossi coglioni tesi e gonfi di sperma che lo sottendevano: era il cazzo di Ulisse, che come si vedrà ebbe una parte molto rilevante nelle avventure del’eroe e che oscurò di gran lunga la sua proverbiale astuzia. Mentre Chirone gli mostrava queste cose, aveva fatto venire Ila accanto a sé e con fare noncurante aveva iniziato ad accarezzarlo, prima dandogli dei buffetti nelle guance, poi scendendo alle braccia, al petto e infine decisamente al giovane e perfetto culetto, su cui la grande mano pelosa maschile si soffermava indagatrice. Il ragazzo poteva sentire il profumo di unguenti di mirto ed elicriso della parte umana del mostro, uniti al tipico afrore cavallino della bestia che formava la parte inferiore del centauro. Mentre Chirone parlava, e la sua mano diveniva sempre più ardita sulle parte più intime del ragazzo, Ila non potè non notare l’enorme verga che nel frattempo era fuoriuscita dal suo astuccio, sotto il ventre cavallino. E’ chiaro, disse allora Chirone, che tutte queste informazioni hanno un piccolo prezzo da pagare, e che pagherai sotto forma di un piccolo sacrificio prima di venire restituito al tuo muscoloso Eroe, e dicendo ciò, gli occhi gli brillavano di desiderio, mentre Ila, atterrito dalle dimensioni cavalline dell’arnese del centauro, sentiva il buchetto contrarsi involontariamente.

Nel frattempo, nella lontana Itaca, Telemaco, ormai ventenne, passati i lunghi anni dell’adolescenza tormentato da un desiderio intenso e implacabile di conoscere suo padre Ulisse, aveva preso la decisione di partire per il Mediterraneo in cerca dell’eroe ormai disperso da anni. Telemaco non cessava di ascoltare Filezio, il bovaro ed Eumeo, il porcaro, che gli descrivevano nei minimi particolari la forza, la saggezza e perché no, il fascino virile di quello che era stato il loro padrone. Ma Ulisse era stato anche il loro amante e sverginatore, secondo un’antica usanza radicata in quella società feudale, che prevedeva che i giovinetti venissero iniziati ai riti maschili dell’età adulta dal signore dell’isola. Solo una volta che avessero avuto le viscere inondate dall’abbondante seme del loro padrone, i ragazzi potevano essere considerati uomini a tutti gli effetti, con diritto a procreare e iniziare, a loro volta, i loro figli e quelli degli amici. Telemaco aveva perso la verginità con il bovaro Filezio, un bell’uomo bruno, villosissimo che lo aveva portato una volta ad assistere alla monta taurina: separata la vacca in calore e pronta ad essere fecondata, Filezio aveva portato un bellissimo toro bianco che, dopo avere abbondantemente annusato e leccato le grandi labbra schiumanti della vacca, con un balzo le era salito dietro e con un sol colpo ben assestato l’aveva infilzata con la lunghissima verga rosea. Telemaco era visibilmente eccitato e si accarezzava senza sosta il membro divenuto rigido per l’eccitazione sotto la tunica, ma non si era accorto che Filezio, nel frattempo, denudatosi totalmente lo aveva afferrato con i fianchi e con un rapido movimento lo aveva penetrato tra le morbide e bianche natiche con il grosso cazzo che svettava dalle sue cosce muscolose e pelose come un ariete possente Telemaco aveva urlato dal dolore, ma le sue urla erano state coperte dai muggiti del toro eccitato che stava inondando il ventre della vacca sotto di lui. Dopo alcuni mesi era stata la volta del porcaro Eumeo, anziano ma ancora valente nelle cose amorose, e soprattutto un autentico porco, come voleva la sua professione. Eumeo aveva insegnato a Telemaco tutti i giochetti che si possono fare tra maschi infoiati, alcuni veramente perversi, e Telemaco aveva rapidamente imparato tutti i segreti del desiderio maschile. Nel frattempo la madre di Telemaco e moglie di Ulisse, Penelope, si trovava a far fronte alle pretese sempre più insistenti dei giovinastri del luogo, i Froci, che non perdevano occasione di gozzovigliare a spese della povera presunta vedova, in quello che era stato il palazzo reale di Ulisse. Penelope aveva adottato la famosa messa in scena della tela, che disfaceva di notte per riprenderla di giorni e i Froci che controllavano l’andamento dell’opera non facevano che sbuffare e dire che si erano rotti i coglioni di aspettare. Telemaco, nel frattempo, scoperti i piaceri dell’amore, andava spesso ad osservare i Froci che facevano il bagno sotto una cascata, per vedere i loro bei fisici muscolosi e nel pieno della virilità. Fu durante una di queste sedute, mentre si masturbava nascosto da un cespuglio, che fu sorpreso da un Frocio che si era allontanato deal gruppo per pisciare. Questi afferratolo per le spalle e riconosciutolo come il figlio dell’odiato ex-padrone dell’isola, lo aveva trascinato in mezzo ai compagni, che a turno, con violenza e spregio avevano abusato di lui, spanandogli il buco del culo come un colabrodo. A questo punto Telemaco aveva preso la sua decisione, voleva conoscere il suo vero padre, voleva sentire la sua bella voce maschia, voleva accarezzargli le membra villose e muscolose, dicendogli quanto gli era mancato, voleva, infine ricevere nel ventre la sua possente virilità, urlando per quel piacere che ancora non era riuscito a provare con i rozzi amanti della sua isola. Allestita perciò una barca con un piccolo equipaggio, si diresse verso la terra ferma, e precisamente verso Delfi, dove contava di avere notizie importanti sul seguito della sua ricerca.

Nel frattempo, nella non lontana isola di Corcù, terra dei Feci, un gruppo gioioso di ragazzi stava giocando a palla in una radura vicino ad un ruscello. Quando la palla rotolò lontano, verso il fiume, Nausico, il figlio del re Alcino, fu il primo a correre per recuperarla. Si dovette districare in una folta macchia di rovi e vitalbe, e quando giunse infine in un piccolo prato vicino all’acqua, vide un uomo profondamente addormentato e completamente nudo e non era un uomo qualsiasi. Nausico rimase un attimo interdetto, poi si mise a guardare quel fisico di maschio, virile e muscoloso, che giaceva ignaro sotto il suo sguardo. Il bel volto incorniciato da una folta e riccioluta barba era connesso da un collo taurino ad uno splendido e muscoloso torace, con i pettorali in rilievo completamente ricoperti da una folta pelliccia di peli neri, che lasciavano liberi solo i capezzoli rosei ed eretti. Più giù lo stomaco e il ventre piatti, erano ricoperti da una linea di peli più sottile, che sembrava portare necessariamente lo sguardo all’esplosione di pelo nero che ricopriva le parti più intime dell’uomo. E qui Nausico, per poco non gridò, quando il suo sguardo incontrò l’enorme asta virile che si ergeva impetuosa tra le cosce muscolose, accompagnata da due grosse sfere gonfie e pelose. Mentre contemplava lo spettacolo di quell’enorme verga, il ragazzo si sentiva sciogliere dal desiderio di toccarla , di sentirne la consistenza, di assaggiarne il sapore, dato che non aveva mai visto un cazzo, come lo chiamavano i suoi amici quando si masturbavano in cerchio assieme a lui, di quelle proporzioni e durezza. Il cazzo di Ulisse addormentato, sembrava avere una vita propria e si muoveva di tanto in tanto con rapidi movimenti inconsulti che lo rendevano ancora più affascinante. Nausico, ormai senza più ritegno, stava per allungare una mano per palpare il poderoso organo, quando l’eroe aprì gli occhi e sorridendo disse: Ti piace quello che stai vedendo?

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