Gay Erotic Stories

MenOnTheNet.com

Al Concerto

by Moraldo


Al concerto da moraldo@gay.it E' strano come a distanza d'anni, anzi di decenni, io riesca ancora a rivivere l'episodio della mia vita sessuale che ora mi accingerò a raccontare. E' strano perché riesco ancora a distinguere i particolari di quell'esperienza con lucidità matematica, senza mescolarli, confonderli, fonderli con quelli delle mie infinite esperienze successive. Ricordo, come sin dalla mattina, quella nebbiosa giornata dicembrina negli anni settanta fosse stata normale, nessun presagio, segno, premonizione di quello che mi sarebbe accaduto la sera. Quando tornai dalla scuola, un austero collegio di Salesiani, mio padre era in poltrona, e Stefano era se-duto ai suoi piedi. Stefano era il mio fratellastro. Aveva 32 anni e lavorava come tecnico presso uno studio di odontotecnica o qualcosa del genere. Stefano era alto, grande, e aveva già una leggera stempiatura che si notava appena; aveva, infatti, i capelli cortissimi da quando anni prima aveva fatto il militare. Ma la cosa che colpiva di più era sicuramente gli occhi da gatto sornione che lanciavano messaggi di sensualità, subito disattesi dai suoi modi rigidi. Io lo conoscevo da sempre, e lo desideravo senza speranze. A dire il vero il mio desiderio non si concretava neanche nella fantasia, perché se sapevo poco dell'amore, del sesso non avevo la minima cognizione. Durante tutta l'adolescenza Stefano aveva dato corpo ai miei fantasmi erotici in maniera nebulosa; se fossi un amante ottocentesco oserei dire in maniera "spirituale", ma visti i tempi lascerei perdere gli aggettivi. Ma ritorniamo ai fatti. Mi ricordo che un noioso cantautore rock, di quei tempi cantava nella mia città, - luogo, di cui taccio il nome per un'inutile prudenza senile: questi sono fatti realmente accaduti. Vi basti sapere che è un nebbioso e assonnato centro abitato nella valle del Po. Il concerto era un vero avvenimento in quella sobria provincia padana.- Stefano aveva raccattato da non so quale conoscente due biglietti per quello spettacolo. Sua moglie era a casa della suocera con la bambina, ma lui non aveva voglia di andar-ci da solo. Mio padre insisteva che non aveva la benché minima intenzione di accompagnarlo: era un tipo giovanile e aperto a molte esperienze, ma non fino a quel punto. Allora Stefano si scurì. Improvvisò un’espressione di cruccio, si portò una mano al mento, cercò di avere uno sguardo generoso e con una con calcolata svogliatezza soffiò fuori una frase di circostanza del tipo che gli sarebbe piaciuto tantissimo andare al concerto di quel cantante con me. Stefano mi guardò di sbieco. Io ero più sbalordito di mio padre; anzi lui sembrava tranquillo. Giorgio, mio padre, con una faccia che, con mia grande meraviglia, esprimeva più diffidenza che preoccupazione, meditò un momento, gli ricordò la mia età (17 anni suonati, ma allora era come averne oggi dieci). Stefano si alzò, mi afferrò per un braccio e cominciò a mettermi fretta. Se non uscivamo immediatamente saremmo arrivati tardi. Io ero solo imbarazzato. Non avevo fatto in tempo a cam-biarmi, avevo addosso l’uniforme del collegio, figuriamoci se ero entrato nell'abito mentale di un appuntamento con Stefano. Mi fu infilato quasi a forza il cappottino blu e via sulla R4 di Stefano. In quel momento mi sentivo eccitatissi-mo, era la prima volta che uscivo con lui, la prima volta che uscivo di sera senza genitori nelle immediate vicinanze. Il tragitto fu lungo. Lui parlava di continuo. Lo sor-presi un paio di volte a guardarmi le gambe attraverso il cappotto aperto. Quando posteggiammo, abbastanza lontano dal piccolo stadio, Stefano si voltò verso di me e mi disse che non dovevo separarmi da lui per nessun motivo. Mi chiese se sarei stato capace di comportarmi come un bravo bambino obbediente. Umiliato, gli risposi di sì, molto tristemente. Allora, fece una cosa che mai mi sarei aspettato da un uomo e mai da lui. Si piegò verso di me e mi baciò due volte, prima lieve-mente, al centro della guancia sinistra, poi sul bordo della mandibola, quasi sull’orecchio. Aveva approfittato del mio stordimento di ragazzino finto-cattolico per mettermi una mano sulla coscia. Fuori faceva molto freddo. Mi passò un braccio sulle spalle, un segno che non volli interpretare, vinto dal turbamento, e rimanemmo in silenzio dentro la macchina. Fuori attraverso i vetri tutti appannati andavano e venivano i fari gialli e rossi delle macchine. Lontane si sentivano le chiacchiere dei ragazzi in coda per entrare. Leggera si sentiva la pioggia sul tetto della R4. Dentro c'era solo il nostro morbido silenzio. Io allora feci una domanda la cui stupidità mi sembra sfumare con il passare degli anni. "Ma noi non entriamo?" Lui mi guardò con un sorriso ebete e poi rispose: " Vuoi che ti porti a casa? " In quel momento la confusione fu totale. Non capivo perché quella sera Stefano mi aveva portato con sé, mi aveva condotto lì se non voleva vedere il concerto, perché continuava a carezzarmi la coscia e perché sentivo che qualcosa di duro mi cresceva nelle mutande. In ogni modo istintivamente risposi: "No." "Benissimo." Si fermò a guardarmi ancora un istante. Poi, con un movimento perfettamente sincronizzato, mi mise la ma-no sinistra tra le cosce e la lingua in bocca e io allargai le gambe e aprii la bocca e cercai di rispondergli come pote-vo, come sapevo, cioè non molto bene. « Sei duro... » La sua voce, parole sorprese e compiaciute allo stesso tempo, suonava molto lontana. La sua lingua era calda, e sapeva di gin. Mi leccò tutto il viso, il mento, la gola e il collo, e allora decisi di non pensa-re più, decisi per la prima volta di non pensare, lui avrebbe pensato per me. Cercai di abbandonarmi, di gettare indietro la testa ma non me lo permise. Mi chiese di aprire gli occhi. Si girò verso di me e infilò la gamba sinistra tra le mie, spingendo verso l’alto, obbligandomi a muovermi contro i suoi pantaloni di cotone. Sentivo caldo, sentivo che il mio sesso si gonfiava, si gonfiava sempre di più, era come se si pietrificasse e diventava caldo sempre più caldo, e sentivo la pelle sbucciare il glande lucido, appiccicoso, il mio sesso si ingrossava di fronte a qualcosa ad un piacere snervante, insopportabi-le, nuovo, perfino molesto, al quale però non era possibile rinunciare. Mi sbottonò la camicia e tirò verso l'alto la canottiera, fin sopra i capezzoli che accarezzò con delle mani che mi sembrarono enormi. Mi morse un capezzolo, solamente uno, solamente una volta, strinse i denti fino a farmi male, poi le sue mani mi abbandonarono, anche se la pressione della coscia si faceva sempre più intensa. Sentii il rumore inequivocabile di una cerniera. Mi prese la mano destra, la mise intorno al suo cazzo e la scosse due o tre volte. Quella notte anche il suo cazzo mi sembrò enorme, ma-gnifico, unico, sovrumano. Continuai da solo. Di colpo mi sentii sicuro. Questa era una delle poche cose che sapevo fare: seghe. Cercai di concentrarmi, di farlo bene, la sua mano mi afferrò il polso per imprimere il ritmo alla sega, un ritmo lento e stanco, la condusse verso il basso, ora gli toccavo le palle, e di nuovo in al-to, ora avevo solo la pelle tra le dita, molto lentamente. Conti-nuammo così per un bel pezzo. Io mi guardavo la mano, af-fascinato, lui guardava me, sorrideva. Erano scomparse le ansie. Ora sem-brava tutto molto dolce, molto lento. Il mio sesso rimaneva gonfio, pulsava e mi stringeva. « Ho sempre avuto molta fiducia in te. » La sua voce era tenera. Quel pezzo di carne rossa e scivolosa era diventato la stella della serata. Lui ormai non mi toccava, non mi faceva niente. Si era spostato impercettibilmente, per non distur-barmi, fino a recuperare la posizione iniziale. Ora occupava di nuovo il sedile del guidatore, il corpo arcuato in avanti, le braccia penzoloni indietro. Mi avvicinò la bocca all’orecchio. « Hai...? » Non terminò la frase, rimase muto, pensoso, come se stesse scegliendo le parole. « Hai mai preso in boc-ca il cazzo a qualcuno? » Smisi di muovere la mano, alzai la testa e lo guardai negli occhi. « No. » Non mentivo, e lui se ne rese conto. I vetri erano ancora appannati. Fuori la temperatura doveva essere gelida, dentro la nozione di caldo e di freddo era scomparsa. Tornò ad appoggiarsi contro il sedile, mi guardava. Ripresi la sega, respirai due o tre volte profondamente. Abbassai la testa, chiusi gli occhi, aprii la bocca, e decisi che, dopo tutto, anche se non lo avevo mai saputo era proprio quello che avevo sempre voluto: il cazzo di Stefano. Richiusi la bocca sul glande e l'assaporai con grazia. Lo leccai con la punta della lingua, e Stefano si arcuò di più, si stirò come un gatto e mi mise una mano sopra la testa. Lo impugnai con la mano sinistra e cominciai dalla base, appoggiai la lingua contro la pelle e la mantenni ferma un momento. Poi cominciai a salire, molto lentamente. La maggior parte della mia lingua continuava a rimanere den-tro la bocca, di modo che, salendo, ci passavo su con il na-so, poi con la lingua e infine col labbro inferiore, che segui-va la scia della mia stessa saliva. Quando arrivai al bordo, ritornai verso il basso, alla base, per ricominciare a salire molto lentamente. Stefano sospirava. I peli mi facevano il solletico al mento. La seconda volta arrivai alla punta e la ingoiai di nuovo. Aveva un sapore non sapido. Tutti i cazzi che ho sentito in vita mia, troppo puliti, avevano un sapore insipido. Era duro e caldo, ap-piccicoso naturalmente, ma tutto sommato era sor-prendentemente non era ripugnante ma neanche piacevole, almeno al gusto. Percorrevo la sua fessura con la punta della lingua, scen-devo lungo quella che sembrava una specie di cucitura invi-sibile fino al grosso bordo e mi fermavo proprio sotto di es-so, per seguirne il contorno. Facevo tutto molto lentamente Oggettivamente non ricavavo alcun piacere da quell’atti-vità, se non forse quello del contatto con una carne nuova, che la mia lingua percepiva molto più nitidamente di quan-to avessero mai percepito le mie mani. No, non ricavavo alcun piacere da quell’attività e tuttavia ero sempre più eccitato. Da qualche parte nella mia testa, abbastanza lontano da non infastidirmi, abbastanza vicino perché lo notassi, palpitavano la scoperta della mia omosessualità e il fatto che ero dentro una macchina, in mezzo alla città, a succhiare il cazzo a un membro di famiglia e sentivo on-date di un piacere intenso. Stefano seduto, ben diritto e vestito, lasciava fare. Io, buttato sopra il sedile, mezzo nudo, rattrappito e scomo-do, accettavo senza difficoltà quello stato di cose. Quando stavo iniziando a divertirmi un po' troppo con tutte quelle sbocconcellate, la mano che riposava sopra la mia testa si diresse bruscamente verso il basso. Mi prese di sorpresa e ne inghiottii un bel pezzo. Ritirai istinti-vamente le labbra, ma la sua mano continuò, impassibile, a spingermi verso il basso. Ripetemmo il gioco cinque o sei volte. Era divertente, anche cercare di resistere. Avevo la bocca piena. Sentivo i piccoli rigonfiamenti delle vene, le impercettibili asperità della pelle rugosa, che saliva e scendeva, la punta mi colpiva il palato, cercai di inghiottirlo tutto, di mettermelo tutto in bocca e dovetti contenere un paio di conati. Stefano fece scivolare la mano sopra la nuca, la richiuse, spingendo verso il basso e poi lasciando, guidandomi ancora una volta. Le sue noc-che mi si conficcavano nella testa. Mi faceva male, ma non feci niente per evitarlo. Mi piaceva. Ora si muoveva anche lui, leggermente, entrava e usciva dalla mia bocca. « Ho sempre saputo che eri un bambino sporcaccione, Michelino », parlava lentamente, masticando le parole, come se fosse ubriaco, « ho pensato molto a te, negli ultimi tempi, ma non avrei mai pensato che fosse così facile... » Il mio sesso accusò immediatamente il colpo, avrebbe finito per esplodere in mille schizzi se continuava a montare a quel ritmo. Continuavo a tenere gli occhi chiusi ed ero completa-mente concentrato su quello che stavo facendo, mi ero tal-mente piegato in avanti da ritrovarmi praticamente sdraiato di fianco sul sedile, con le gambe ripiegate, la manovella del finestrino contro la coscia, mentre cercavo di far segui-re con precisione alla mia mano il movimento della bocca, sfidando apertamente la mia naturale goffaggine, con un ta-le impegno che mi ci volle qualche tempo prima di accor-germi del profondo cambiamento di situazione. Stefano aveva smesso di muoversi e di ansimare e io mi ritrovai la bocca ripiena di sborra calda. Ora davvero non sapevo più che fare, e feci quello che penso ognuno di voi avrebbe fatto in quella situazione: ingoiai, e ingoiai e ingoiai tutto quello che riuscii a far passare giù per la gola. Ancora una volta senza farmi o porre domande. Poi iniziai a estrarre il robo di bocca sollevai lo sguardo e Stefano mi passò il pollice sulle labbra, come si fa con i bimbi piccoli per pulirli. E disse: ora devi godere un po' anche te! Due to international translation technology this story may contain spelling or grammatical errors. To the best of our knowledge it meets our guidelines. If there are any concerns please e-mail us at: CustomerService@MenontheNet

###

1 Gay Erotic Stories from Moraldo

Al Concerto

Al concerto da moraldo@gay.it E' strano come a distanza d'anni, anzi di decenni, io riesca ancora a rivivere l'episodio della mia vita sessuale che ora mi accingerò a raccontare. E' strano perché riesco ancora a distinguere i particolari di quell'esperienza con lucidità matematica, senza mescolarli, confonderli, fonderli con quelli delle mie infinite esperienze successive. Ricordo,

###

Web-02: vampire_2.0.3.07
_stories_story